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Joshua MacAbe sta male. Tanto male. Come se stesse per morire, e in effetti a ben vedere è così. Gli fa male la gamba destra, tanto male, ma non vuole guardare, perché ha paura, tanta paura. L’ultima cosa di cui si ricorda è un botto fortissimo, che gli ha fatto vibrare il cervello nel cranio, e che gli fa fischiare ancora le orecchie; poi un brevissimo volo senza controllo, come su un aereo impazzito. Infine l’impatto con un muro. Poi la sensazione di essere immateriale; quasi liquido e inesistente, come se la sua essenza fosse stata sbalzata ovunque nell’universo, nel suo casco tattico, nel giubbetto antiproiettile, nella buffetteria, nel fucile, nei nemici che gli sparano attorno, negli edifici in macerie. Joshua è tutto questo, finché la sua coscienza non ricomincia a ricomporsi, a farsi solida; ed è bello, è una buona notizia se credevi che l’anima ti fosse volata via dal corpo; lo è meno quando si diventa “troppo solidi” in un punto del corpo; la gamba destra, che adesso pulsa e fa male come se tutte le particelle, gli infiniti atomi che la compongono stessero spingendosi gli uni contro gli altri con forza sempre maggiore. Il canadese respira; vorrebbe che quella parte del suo corpo facesse un po’ meno male, vorrebbe che fosse un po’ meno vera, perché non puoi sentire dolore a un arto nato dalla tua fantasia. Come quando era bambino e fingeva di avere quattro braccia; se te ne rompi uno cadendo dalla bicicletta almeno ne hai altri tre perfettamente funzionanti. Cerca di controllare il respiro e contenere il battito cardiaco, come gli hanno insegnato i suoi istruttori, però è maledettamente difficile, e quella dannata gamba che continua a pulsare sembra quasi non lasciarlo in pace. Non ci riesce tanto bene Joshua a controllare la sua reazione, e questo forse lo spaventa anche un po’ di più del dolore in sé (che non è che non gli faccia paura). Deve concentrarsi su qualcosa che gli permetta di distrarsi dalla paura: la tentazione di guardare, deve considerarla eppure resisterle. È come gettare benzina su un fuoco, facendo tuttavia attenzione che non divampi a tal punto da ardere la casa in cui ti trovi, perché fuori c’è così freddo da congelarti in pochi minuti. “Josh! Resisti!”, quella voce lanciata con forza nell’azzurro del cielo in rapido movimento davanti ai suoi occhi, Alain, l’amico di una vita. MacAbe vorrebbe rispondergli, dirgli che resisterà e che ce la farà, me è come se la bocca non eseguisse. Quattro mani lo afferrano, lo prendono da sotto le ascelle, dalla gamba sinistra e passano sotto i fianchi per sollevarlo. Anche questo “volo” improvvisato dura meno del previsto, ma l’atterraggio è più dolce, prima che lo lascino sulla barella e riprenda a volare trasportato dai commilitoni. Questa volta ha paura di essere morto; davanti a sé vede solamente il cielo senza nuvole con il sole che splende. I contorni distrutti delle case fanno da cornice mentre il suo corpo si alza verso l’alto. Non è ancora pronto ad andarsene; non così. Deve salutare i suoi colleghi, bere una birra con Mary, darle un bacio, salutare la sua famiglia a Ottawa. Non può recidere in questo modo tutti i suoi legami con il mondo, e ripensa a quando si è svegliato quella mattina, sa che è stata l’ultima volta. Ecco che i colori cominciano a sbiadire, diventando sempre più grigi. Il canadese teme che sia il momento finale, si è sempre professato ateo, ma adesso scopre di avere paura che Dio esista, che appaia quando quel mondo avrà finito di dissolversi. E sa che non perdonerebbe mai i suoi peccati mai confessati. Improvvisamente vede la testa di Alain, il volto è nascosto sotto il passamontagna nero e il caschetto tattico, ormai i suoi occhi percepiscono solo differenti tonalità di grigio, sembra che la piccola porzione di pelle sia color pietra. Se soltanto Joshua avesse avuto la pelle di pietra per affrontare il botto. Non si sarebbe fatto niente se non fosse stato per le sue cuoia flaccide e rosee. La gamba gli fa male, e lui vorrebbe disperatamente guardare: non guarda, ma continua ad alimentare il desiderio. Almeno muovere un po’ la mano, tastarsi la ferita per osservarne la profondità, coglierne il senso e forse capire se è il caso di spaventarsi o no. Ma non può farlo, o non avrebbe più niente da usare per distrarsi dal dolore. Alain lo guarda, mentre i quattro commilitoni continuano a correre sotto il sole rovente dell’Afghanistan, improvvisamente la mente comincia a portarlo indietro; dicono che quando stai per morire la vita ti passa davanti agli occhi. Joshua rivede la caduta dalla bicicletta, rivede il fratello avvocato a Ottawa; l’arruolamento in Marina, e Mary, la selezione per le Forze Speciali, e Mary. Lo sguardo meraviglioso della donna sta diventando una costante fissa, una presenza quasi fisica che si condensa verso l’atto finale. Un po’ gli manca la sua donna. Come un po’ aveva paura del fidanzato di lei quando l’aveva conosciuta, un tale di madre Huron e col fisico da pugile, non si ricorda come si chiamava. Forse Zack, o Zane, qualcosa che iniziava con la “Z” poco ma sicuro. Ricorda che quando lui e Mary si sono baciati lui era in licenza. All’epoca lavorava in Marina, e non ancora nelle Forze Speciali, ed era stato un po’ spaventato di vedersi dare un bacio così in mezzo alla strada, senza neanche “chiedere il permesso”. Però d’altro canto non solo erano amici, ma lui aveva scoperto dell’esistenza di questo “Z” a pochi centimetri dalla punta del naso di lei, che quindi si era giustificata sorridendo e dicendo di avergli reso “pan per focaccia”. Sì, e aveva aggiunto una breve risatina che riecheggia nelle orecchie facendosi strada oltre il fischio, mentre la percezione del mondo si fa sempre più ovattata. Alle sue spalle si sente un’esplosione fortissima e un grido, ma non vuole guardare che cosa sta succedendo, e ha paura, troppa di quella paura che cerca di controllare con la tentazione. Sente che Alain sta dicendo qualcosa alla radio “Break, Break…Anteria…Uomo a terra, ripeto, abbiamo…estrazione immediata”, non sono vere e proprie frasi, ma frammenti, che fanno più male che non sapere, occultate dalla confusione e dal rumore degli spari. L’ Anteria è la loro nave, ormeggiata al largo dell’India, in cui è situato il loro Centro di Comando, anche se risiedono stabilmente in una base operativa a una quindicina di chilometri dal luogo in cui si trovano adesso. In realtà lui è domiciliato a Montreal, parla perfettamente inglese e francese, mastica l’arabo, e non vuole morire in Afghanistan. Però la bomba dell’imboscata ha fatto saltare in aria anche il loro blindato mentre si stavano dirigendo verso il centro di addestramento della Polizia Nazionale afghana. Gli stavano insegnando come respingere il genere di terroristi che adesso erano lì a sparargli addosso “Tranquillo Josh, 90 secondi e siamo sul blindato”, lo rimettono a terra, e vede gli uomini che si inginocchiano a semicerchio attorno a lui, fucili spianati, pronti a far fuoco. Vorrebbe poterli aiutare, ma non può far altro che muovere leggermente la testa, vede uno degli aggressori. Alto, barbuto, pelle olivastra da afghano. Però il canadese ha perso il fucile nell’esplosione, e cerca di allungare la mano per prendere la sua pistola, ma non la trova, è come se le sue dita sfiorassero l’aria senza arrivare a chiudersi attorno al calcio dell’arma. Si ricorda del coltello tattico, ma non può prenderlo: dovrebbe piegare il ginocchio per riuscirci, e ha paura che finirebbe per capire la reale gravità della ferita. Così si tiene in bilico, lasciando che le sue dita non si chiudano attorno all’arma che c’è; perché lui lo sa che quell’arma è lì, sente il laccio della fondina stringergli attorno alla coscia. Ma non sa come prenderla. L’afghano cade a terra, proiettato all’indietro, forse lui sta un po’ peggio, e il fatto che le dita sembrino andate in vacanza non è il suo problema più grande da risolvere adesso. Ha il sole negli occhi, presenza ingombrante che cerca di convincerlo a ruotare di un po’ il capo, e ci prova Joshua MacAbe; ma fa troppo male, un male che gli esplode dietro, sulla nuca. Vorrebbe portarsi le dita davanti agli occhi, ma si sente troppo debole, e ha veramente troppa paura di guardarsi per fare quel semplice gesto. Ha paura di addormentarsi e non svegliarsi mai più, di non rivedere mai più Mary. Di non bersi mai più una birra con Alain. E quindi rimane lì a soffrire in mezzo ai proiettili, con una gamba che gli fa vedere tutto grigio, le dita che non afferrano più oggetti e il sole negli occhi, almeno finché non arriva a fargli ombra un blindato. La massiccia figura si staglia contro il cielo, che Joshua vede grigio. È blu, perché è una giornata stupenda, ma lui lo vede grigio piombo. Improvvisamente nota il suo amico, questa volta a poco più di un palmo dal naso “tranquillo, ti portiamo via da qui”, e subito altre braccia sconosciute lo sollevano, dandolo in pasto al ventre buio del veicolo militare. Uno degli operatori grida “forza, tutti dentro canaglie!” con un marcato accento del Québec, forse anche un po’ sgradevole, o forse il suo udito da “evanescente” è diventato sempre più solido, forte e concentrato, e adesso gli fa male come è successo con la gamba. Sente il rumore di scarponi contro il metallo, poi di due massicce ante di acciaio temprato che si chiudono, isolandolo dal mondo, solo lui e i suoi compagni. Poi il carro inizia a muoversi, tra le urla e gli spari, verso l’accampamento, dove lo medicheranno “ehi Josh”; gli dice Alain “stai tranquillo, vedrai che ti rimetterai in sesto, andrà tutto bene”. Però lui non gli crede fino in fondo, dubita che anche se stesse per morire il suo amico verrebbe a dirglielo, e per questo ha paura: pura e semplice paura.

Mattia Gioele Micheli 5UB