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[Phanengrau,Canton Basel lant, 19/04/1943, durante l’invasione nazista]

Il cannoniere aprì in tutta fretta la cassa di legno destinata alle riserve di guerra servendosi del robusto piede di porco in dotazione alle unità con artiglieria campale fissa. Non credeva che sarebbe mai potuto accadere quello che stava effettivamente succedendo, rivolse lo sguardo al suo comandante, quasi come un bambino che cerca qualcosa a cui appoggiarsi per ritrovare l’orientamento nella casa buia, in attesa che arrivi la mamma o che qualcuno accenda un cerino.L’uomo, tal Tenente Colonnello Karl Meilen, originario di Lucerna, appariva un pezzo di ghiaccio avvolto nella sua uniforme grigio chiaro con le decorazioni rosse delle unità di artiglieria campale. Era alto, affusolato, sottile, per certi versi sottile e tagliente tanto nella sua prosa (come testimoniava la lite con un collega della fanteria avvenuta il giorno prima, quando non avevano attaccato le formazioni avversarie coi mortai), quanto nelle maniere, che andavano dai baciamani agli sganascioni dati a quel ragazzotto che aveva bevuto un bicchiere di troppo all’osteria in città. D’altro canto, non tutti facevano la leva militare e, se si era amici (o, come nel suo caso, figli) di qualcuno di importante, si poteva sperare di schivarsela e rimanere a casa propria. Quello strano figuro dai capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, sembrava sapere il fatto suo in materia di guerra, pur non avendone mai combattuta una. A vederlo mentre osservava la situazione attraverso il binocolo, sembrava quasi a casa sua, tranquillo, per certi versi addirittura felice. Lo scenario era chiaro: il luogo dello scontro era un passo alpino al confine con la Schwartzwald, che aveva offerto copertura al nemico per spostare le divisioni corazzate e la fanteria fino a farla arrivare ad un tiro di schioppo dal confine. Le loro batterie di mortai, posizionate circa tre chilometri a sud rispetto alle fortificazioni del Ridotto nazionale (immensa opera difensiva costruita per ordine del Generale Henri Guisan), che avevano il compito di arrestare la marcia dei blindati. In pratica, mentre le mitragliatrici pesanti facevano fuoco nei piccoli bunker in cemento armato falcidiando l’invasore, il loro lavoro consisteva nel colpire la zona dalla quale potevano provenire i carri. La loro unità era composta da Mailen, che dettava le coordinate di tiro, Jean Bertot, soldato originario del Canton Vaud, che eseguiva mettendo il mortaio in posizione, e Luois Noselli, di madre ginevrina e padre ticinese, che doveva inserire i proiettili nella canna. Accanto alla batteria vi era un tavolino in legno, poco più di un’asse marcia inchiodata su dei ciocchi col fondo limato per essere a livello del terreno, che doveva sorreggere una mappa della zona, la penna ed il foglietto per eventuali calcoli. Il binocolo invece Meilen se lo portava dietro ovunque andasse, sempre appeso al collo. Forse gli era addirittura più caro dell’uniforme di gala pulita ed ordinata, che era stata causa di punizioni per gli assistenti nel caso in cui gli alti ufficiali superiori se la fossero trovata con qualche piega. Lui no, stava lì con un giaccone da soldato, una camicia di tela grezza ed un berrettino di feltro. L’unica differenza con loro stava nei gradi sulle spalle e sul fatto che la sua uniforme fosse priva delle cinghie con sacche di cuoio per portare i caricatori. E nello sguardo. Quel suo sguardo gelido che lo avrebbe fatto contraddistinguere anche in una piazza gremita di gente. Era il volto di chi la sapeva lunga su…qualsiasi cosa che andava dalla cucina di campo fino a come combattere con la baionetta buttato nel fango. Per certi versi faceva paura, per altri invece rassicurava, mentre dettava le coordinate di tiro la sua voce calma faceva quasi presagire un “tranquilli, ci sono qui io a darvi una mano”. Mise giù il binocolo, probabilmente aveva visto qualcosa. “Bertot” lo chiamò, secco, metodico “sì, signore?” “Tu ti ricordi a quale velocità esce il proiettile dal mortaio?”, il ragazzo, al quale ciò era stato insegnato due anni prima durante la Scuola Reclute, ci dovette pensare un attimo sopra. “dovrebbero essere 1400 metri al secondo circa, signore”, “perfetto”. Meilen si chiuse per un attimo in sè borbottando, approssimativamente il terrapieno era alto una quindicina di metri in più rispetto alla posizione del bersaglio. Quindi avevano il punto di partenza e la velocità del proiettile in uscita dalla canna, il Tenente Colonnello conosceva anche la distanza del bersaglio. Osservò la bandierina, piatta, non tirava un alito di vento. Si prese un attimo di calma, ignorò gli spari accanto a lui, la devastazione, la guerra. Tutto si concentrò su quel semicingolato tedesco fermo davanti all’ostacolo anticarro, il “toblerone”, una barriera di cemento alta circa due metri e dieci. Mise mano al foglio e alla penna, scrivendo i dati, la velocità, 1400 metri al secondo, la distanza, settecento metri, l’altitudine, quindici metri circa. Tutto stava in una semplice equazione per ricavare l’inclinazione necessaria. Il dato ce lo aveva già lì, sul foglio, sotto i suoi occhi da qualche parte. Doveva solamente scovarlo, lo aveva già fatto tante volte, in quel caso però, serviva qualcosa, ed in fretta perché presto il nemico si sarebbe mosso. Aveva già la velocità di partenza, in quel caso il tempo poteva essere un valore trascurabile, all’ora gli serviva l’inclinazione! Ne risalì con una precisa formula matematica e dettò fulmineamente l’inclinazione dell’obice e di quanto andasse ruotato per formare una parabola perfetta. Così fecero i suoi, senza battere ciglio. Quando a fine giornata gli svizzeri andarono a ripulire le macerie dopo la ritirata della Wermacht al fine di riorganizzarsi, un ultimo semicingolato con la croce maltese, simbolo che il  nemico aveva appena finito di bruciare.

Mattia Gioele Micheli 5UB